Enrico Annibale Butti
Enrico Annibale Butti (Milano, 19 febbraio 1868 – 25 novembre
1912) è stato scrittore e drammaturgo.
Pianista
e compositore, autore di romanzi (L’automa
(1892), L’anima (1893), L’incantesimo (1897)), racconti (tra cui L’immorale
(1894), dagli echi
dostoevskiani) e poesie, si distinse anche come giornalista, critico ed autore
di un soggetto cinematografico, ma si segnala prevalentemente come
drammaturgo: per la scena produsse infatti oltre venti
drammi ed una commedia musicale. In particolare cercò di utilizzare la drammaturgia
quale strumento privilegiato per la propaganda delle idee, ritenendo il teatro
capace di raggiungere un pubblico più eterogeneo di quanto non potesse la
produzione libraria: ecco perché nei suoi lavori troviamo una critica serrata e
mai fine a se stessa della società contemporanea.
Biografia
Dopo aver spaziato negli studi dal
diritto alla matematica, alla filosofia e alla medicina, si laurea in
Giurisprudenza e sceglie poi di dedicarsi al teatro e alla letteratura,
aggiungendosi il nome di Annibale per distinguersi dall’omonimo scultore, e
rappresentò, senza successo, un paio di commediole di fronte a studenti
universitari. Poi, a ventiquattro anni, riuscì a raggiungere un “vero”
palcoscenico a Milano con Il frutto amaro (1892). Ma l’accoglienza che gli riservò il pubblico milanese
non fu dissimile da quella dei precedenti lavori, dove Butti rappresentava i frutti amari di certa
educazione liberale, non scevro da una vena di perbenismo vittoriano. Un altro
insuccesso fu Il vortice (1892),
dramma dal finale in sospeso e, per questo, fischiato dal pubblico del tutto
impreparato a questa modernità che addirittura anticipa certi dubbi
pirandelliani (Luigi Pirandello iniziò a produrre nel decennio successivo).
Butti preferì allora lasciare momentaneamente
il teatro: collaborò a giornali, pubblicò romanzi e racconti, raggiungendo una
certa fama. Quindi decise di affrontare nuovamente le scene, questa volta
affidandosi ad una compagnia teatrale prestigiosa (la Di Lorenzo - Andò, che
annoverava tra le sue file anche una giovanissima Emma Gramatica): il successo arrivò
nel 1897 con La fine di un’ideale. Dramma borghese, ma moderno, che
ruota intorno a una sorta di donna-manager.
In questo lavoro Butti riprende un tema che rimarrà costante nella sua
produzione futura: la disillusione degli ideali, dei sentimenti, degli affetti.
La fama per lo scrittore giunge con la
trilogia Gli atei (La corsa al piacere, Lucifero e Una
tempesta) (1900 – 1903). In particolare Lucifero è ancor oggi uno
dei pochissimi drammi italiani che affronti con attenzione la problematica
della religiosità: la fede, il rapporto tra credenti e non credenti e
soprattutto l’educazione, quest’ultimo uno dei punti fondamentali dell’opera
buttiana.
Nel 1904 Butti produce il suo migliore
componimento teatrale: Fiamme nell’ombra. In tre atti viene esposto il
dramma del parroco don Antonio Giustieri e di sua sorella, la chiacchierata e
malata Elisabetta, che egli riprende in casa nonostante i pettegolezzi che potrebbero
precludergli la nomina a vescovo.
Le commedie scritte successivamente risultano
modeste. Ma anche in questi lavori si nota la perizia descrittiva dell’autore: nonostante
la debolezza della trama, la descrizione degli ambienti e dei personaggi è sempre
assai sagace.
In Sempre così (1911), come già in
altri lavori, il mondo della sinistra radicale, dai ricchi deputati socialisti
ai predicatori anarchici – miserabili o pericolosi che siano – è uno dei
bersagli preferiti dalla penna di Butti come, ad esempio, nel precedente L’Utopia
(1894).
Anche l’aristocrazia inetta e debosciata
viene colpita dalla penna dello scrittore milanese in Tutto per nulla (1905)
e Nel paese della fortuna (1909).
Nel 1912, a soli 44 anni, Butti muore. Malato da
tempo ai polmoni, tentava inutilmente di curarsi. Lascia due opere postume: Il
Castello del sogno, poema tragico dalla rara potenza evocativa, che
affronta la tematica dell’impegno dell’artista, e Le vie della salute,
brillante commedia che ironizza efficacemente sul mondo delle case di cura. Per
crudele caso, lo scrittore lavorò a questa pièce proprio mentre cercava
di curarsi in un sanatorio, cosciente di trovarsi negli ultimi mesi di vita.
Dopo la sua morte il drammaturgo milanese e le tematiche religiose da
lui proposte verranno presto dimenticate e solo con Diego Fabbri, nel secondo dopoguerra,
torneranno sul palcoscenico.
L’opera
A Butti va l’indubbio merito di essere stato tra i primi italiani a
portare sulle scene i tormenti espressi da Ibsen: la sua produzione è caratterizzata,
anche nelle opere più leggere, da un amaro pessimismo che tradisce l’influenza
delle opere del drammaturgo norvegese. E, come certo teatro ibseniano, anche
quello di Butti è il teatro della “sconfitta degli ideali”.
I suoi principali personaggi sono, infatti, sempre degli sconfitti.
Che siano socialisti utopici o parroci carrieristi, libertini sulla via della
redenzione o gentiluomini di antica schiatta, severi professori o dame galanti
alla ricerca di un vero sentimento, il risultato non cambia: alla fine il
protagonista non sarà stato capace di raggiungere (o di mantenere) la propria
felicità. Non a caso, uno dei drammi più tragici sul problema dell’educazione
(dei giovani come degli adulti) si intitola emblematicamente Tutto per nulla.
Si può ritenere quindi che la visione di Butti, certamente non
democratica, sia in contrasto con certi sistemi utopici – primo fra tutti
quello socialista – che presuppongono l’uguaglianza degli uomini.
Biografia tratta dal sito: http://www.upra.org/